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  • Il film di Peter Watkins è la risposta cinematografica alla trappola della "monoforma", prestandosi ad essere uno dei film-manifesto più rivoluzionari della storia del cinema...
  • Cosa è più importante? La vita o le idee? Il corpo o l'anima? Il visibile o l'invisibile? Questo è quello che si chiede insistentemente la regista sovietica Larisa Shepitko...
  • È d'obbligo la sua visione prima di scomparire da questo mondo, ma soprattutto prima di continuare a leggere questo blog che porta con tanto onore il suo nome.

martedì 18 marzo 2025

Flow - Un mondo da salvare (2024)

In un mondo post-apocalittico dove l’uomo è ormai scomparso, un gatto lotta per sopravvivere a un'inondazione che ha sommerso la sua casa. Costretto a rifugiarsi su una barca, incontra un labrador giocherellone, un capibara pigro, un lemure cleptomane e un serpentario ferito. Questi animali, così diversi eppure accomunati dal tragico destino, intraprendono un lungo viaggio che li porterà a scoprire non solo la forza della sopravvivenza, ma anche il significato più profondo della cooperazione. 
Fin dai primi minuti, lo spettatore viene incantato dalla straordinaria tecnica d’animazione, da un’ambientazione così ricca di dettagli che crea un'atmosfera palpabile, e dai lunghi movimenti di macchina che invitano ad immergersi completamente nella narrazione. Per la realizzazione Gints Zilbalodis, il regista lettone, ha rinunciato al tradizionale storyboard, lavorando direttamente con gli ambienti in 3D, in cui ha posizionato telecamere virtuali e inserito i personaggi, facendoli muovere nell'imponente scenario, quasi come fosse un videogame. “Questo è stato necessario,” ha spiegato, “perché ci sono molte inquadrature lunghe e complicate in cui la telecamera si muove nello spazio, il che sarebbe impossibile da disegnare negli storyboard.” L’animazione di Flow si distingue anche per il suo approccio naturalistico, lontano dall’antropomorfismo tipico dei classici Disney o Pixar. Gli animali non sono figure idealizzate o caratterizzate da tratti umani, ma incarnano comportamenti autentici, come quelli osservabili nella natura. Per ottenere questo livello di realismo, il regista si è valso della collaborazione di un team di animatori suddiviso in tre squadre, operanti in Francia e Belgio. Prima dell’inizio della produzione, gli artisti hanno trascorso una settimana insieme visitando lo zoo e studiando una vasta gamma di riferimenti fotografici e video, in modo da riprodurre fedelmente i movimenti e le interazioni degli animali. Il film, composto da 22 sequenze e 307 inquadrature, è stato completato in sei mesi, con una media di due secondi animati al giorno per ciascun animatore, evidenziando un impegno e una precisione straordinaria. Ma Flow va ben oltre l’eccellenza tecnica: è un’opera che parla di identità, trasformazione e rinascita attraverso la natura stessa. L’assenza dell’uomo – l’artefice della crisi climatica – non è un semplice sfondo, bensì una scelta narrativa potente che critica la visione antropocentrica con cui l’uomo ha sempre considerato la natura e gli animali. La stessa barca, che diventa rifugio per gli animali, ricorda l’Arca di Noè, ma in una versione senza umani, che diventa il simbolo di un salvataggio non più legato all’intervento divino o all’umanità, ma all’unità e all’armonia che possono nascere solo dalla convivenza e dalla cooperazione tra specie. In questo contesto, la cooperazione che si sviluppa tra il nuovo gruppo di animali, non si configura come un semplice mutualismo, bensì come una forma più profonda di cooperazione solidale, un nuovo paradigma in un mondo in cui i continui cambiamenti climatici mettono costantemente in pericolo l'ordine naturale.


Un aspetto interessante del film è la presenza di uno specchio che possiede gelosamente il lemure nella barca: inizialmente, gli altri naufraghi vi si riflettono con curiosità senza riconoscersi, ma nel finale, quando il gruppo si riunisce, riescono a vedersi chiaramente specchiandosi nell'acqua. Essi sviluppano un’"identità collettiva" che trascende la specie, suggerendo che la consapevolezza di sé e la costruzione dell’identità non siano processi individuali, ma emergano attraverso la cooperazione, l’integrazione e l’empatia verso l’altro.
Una delle scene più belle del film è quella in cui l’acqua si eleva in un "vortice ascensionale", sollevando sia il gatto che il serpentario da terra. In seguito, il serpentario vola in alto verso una luce nel cielo, fino a  scomparire definitivamente. Questo fenomeno naturale, arricchito dal simbolismo visivo, trasforma l’ascensione in un’esperienza mistica e sacrificale. Dopo lo straordinario evento, infatti, l’acqua si ritira, ripristinando l’equilibrio nel mondo. Parallelamente, anche la balena (dall'aspetto "mutante") assume un ruolo enigmatico e salvifico nel corso del film: durante l'inondazione, il gatto la scorge per la prima volta e, subito dopo, compare una barca destinata a salvarlo. Successivamente, la stessa balena gli impedirà l’annegamento raccogliendolo sulla sua testa e riportandolo in superficie. Nel finale, essa appare “morta” e priva d’acqua, simbolo del sacrificio e del ritorno all’ordine. Nei titoli di coda, la sua riapparizione nell’oceano – un silenzioso presagio che lascia aperto il dubbio su una possibile nuova inondazione – accentua ulteriormente il suo valore simbolico, intensificando il mistero che avvolge la sua imponente figura.
Da sottolineare, la presenza di una colonna sonora suggestiva, composta dallo stesso regista Zilbalodis insieme a Rihards Zaļupe, che intreccia i suoni naturali con le melodie elettroniche, guidando lo spettatore in un percorso sensoriale che amplifica ogni emozione e attimo di tensione. Ottoni, marimba e percussioni scandiscono il ritmo del viaggio, facendo da eco alle immagini che si susseguono sullo schermo, in un’armoniosa sinfonia che racconta una storia senza dialoghi ma densa di significati. 
Flow è uno dei più grandi film d'animazione prodotti negli ultimi trent'anni, come l'altrettanto meraviglioso La Tartaruga Rossa di Michaël Dudok de Wit, si distingue per una potenza visiva e musicale che lo rende un esempio eccezionale di narrazione senza parole. La sua visione sfida lo spettatore a ripensare il rapporto con la natura, invitandolo a considerare la possibilità che, senza la presenza distruttiva dell’uomo, la vita possa esprimere forme di solidarietà e armonia fino ad ora inimmaginabili. Si è aggiudicato meritatamente il Premio Oscar come Miglior film d'animazione del 2025. 


Il film è disponibile per il noleggio e l'acquisto digitale su Rakuten TV.

lunedì 27 gennaio 2025

Ryś (1982)

Conosciuto anche con il titolo internazionale The Lynx, è un film diretto dal regista polacco Stanislaw Rózewicz, basato sul racconto "Chiesa di Skaryszew" di Jarosław Iwaszkiewicz (il noto autore di Madre Giovanna degli angeli, che ispirò anche il film di Jerzy Kawalerowicz). La trama è la seguente: un giovane partigiano di nome Ryś (Piotr Bajor), confessa a Padre Konrad (Jerzy Radziwiłowicz) che deve uccidere un traditore e non può sottrarsi alla missione altrimenti verrà punito egli stesso con la morte dalla stessa organizzazione partigiana. Gli chiede anche l'assoluzione dal peccato dell'omicidio. Il giovane prete rimane profondamente turbato dalla sua confessione e dalla sua strana richiesta, sopratutto quando scopre che il presunto traditore è il carradore Alojz (Franciszek Pieczka), un uomo da sempre considerato onesto nel paese e che protegge una bambina ebrea. Padre Konrad, convinto che si tratti di un terribile errore, implora a Ryś di ritardare la sentenza per indagare. Ryś acconsente, ma solo per un giorno.
In tempi di guerra uccidere diventa una necessità inevitabile, come può questa cruda realtà conciliarsi con la morale cristiana? Attraverso Padre Konrad, viviamo questo angosciante quesito esistenziale che lo tormenta incessantemente. La figura di Ryś, comincia a tramutarsi nella sua mente, da un'anima da amare e redimere dal peccato, a una tentazione irresistibile, una figura affascinante e demoniaca che sconvolge il suo equilibrio interiore. Colpisce la scelta del regista di rappresentare questi turbamenti nella coscienza del prete, attraverso delle enigmatiche scene in bianco e nero, che non si limitano a essere visioni mistiche, ma il frutto del suo immaginario e dei suoi desideri inespressi. L'impronta minimalista del film, fedele allo sguardo trascendente di Robert Bresson, schiude sottotesti: la dinamica tra i due lascia anche spazio a una lettura queer, sopratutto quando Padre Konrad, al secondo incontro con Ryś, dichiarerà di essere disposto per amore di prendersi carico della sua missione e del suo peccato, per salvare la sua anima dalla dannazione eterna. Ma quando Padre Konrad realizzerà di dover diventare per il carradore Alojz ciò che Caino fu per Abele, verrà sopraffatto da nuovi dubbi.
Le domande non cesseranno nel finale. Padre Konrad, durante una visita al cimitero, scoprirà una lapide con il nome di un certo "Ryszard Lambert" morto a 16 anni durante la guerra, non sarà forse lo stesso Ryś, ora divenuto uno spettro dannato in cerca di vendetta?
La Polonia rappresentata nel film è desolante, pochissime persone si aggirano per il paese, tutti si nascondono, tutti hanno paura e pochi sanno come reagire nel modo giusto. Anche Alojz, pur avendo messo in salvo una bambina ebrea, ammette a Padre Konrad che in passato avrebbe potuto fare di più per gli ebrei. Ma allora, chi tradisce chi? Cosa significa davvero tradire?
Stanislaw Rózewicz si addentra nella zona di grigio, quella senza scampo, dove non ci sono risposte facili. In tempi di guerra, le fazioni in bianco e nero possono essere una bugia rassicurante, una coperta che nasconde l’orrore. Alojz forse ha tradito qualcuno, ma è secondario, quello che importa al regista a un certo punto, è come l'assenza di perdono e di fede distrugga l'umanità, in un'incessante e perpetuo via vai di spettri in cerca di sangue da versare, di altre vite da spezzare. Tutti un giorno potremmo incontrare Ryś e cedere alla sua trappola. Forse molti l'hanno già fatto. Come si afferma nell'inquietante finale: si pecca anche con l'intenzione. Chi non l'ha mai fatto? Essere "cristiani" non è mai stato così difficile, come in questo film.
Magistrale è la fotografia del film curata da Jerzy Wójcik, fedele collaboratore del regista, che con le sue tonalità grigio-azzurre evoca una profonda malinconia, mentre le ombre studiate nei primi piani intensificano l'ambiguità, sopratutto nelle scene degli incontri tra Padre Konrad e Ryś. Da sottolineare anche la scelta azzeccata dei due interpreti: Jerzy Radziwiłowicz, con il suo volto genuino e denso di umanità, e Piotr Bajor, con il suo sguardo glaciale e tenebroso, entrambi perfettamente calati nei rispettivi ruoli. Le musiche d'organo di Lucjan Kaszycki creano atmosfere gotiche, tra i temi c'è spesso l'uso dell'Adagio in Sol minore di Tommaso Albinoni, che è un brano che fu ricostruito da Remo Giazotto proprio durante la fine della seconda guerra mondiale.
Guardando "Ryś" è come se "Il diario di un curato di campagna" di Robert Bresson e "Il quinto sigillo" di Zoltán Fábri si incontrassero (e scontrassero) nello stesso film. Un inquietante capolavoro, da riscoprire.

Il film è rimasto inedito in Italia, ma ho realizzato una traduzione dei sottotitoli destinati alla versione restaurata del film, potete scaricarli su questa pagina.

mercoledì 1 gennaio 2025

I 10 MIGLIORI FILM VISTI NEL 2024


Durante il corso dell'anno mi capita di guardare moltissimi film, ma non sempre riesco a dedicare a ciascuno un articolo su questo blog. Letterboxd è uno strumento estremamente utile per mantenere un diario aggiornato delle proprie visioni cinematografiche.
Ogni anno, con l'obiettivo di sintetizzare e condividere questa esperienza, scelgo di compilare una lista dei 10 migliori film che ho visionato durante l'arco dell'anno. L'ordine dei film selezionati è puramente cronologico e non rappresenta una classifica basata su criteri di merito artistico.
Di seguito, la lista dei 10 migliori film visti nel 2024.

lunedì 1 luglio 2024

The Devil's Bath - Il bagno del diavolo (2024)

Titolo originale: "Des Teufels Bad". Veronika Franz e Severin Fiala, i registi del bellissimo "Goodnight Mommy", tornano con un film ambizioso, con l'intento di aggiungere un'inedita e terrificante storia al ciclo dei drammi-horror d'epoca a sfondo religioso: il "suicidio per procura", un crimine documentato dalle ricerche della storica Kathy Stuart, che era comune nel XVII e XVIII secolo nell'Europa centrale e in Scandinavia. Era commesso prevalentemente da donne depresse con tendenze suicide, che temendo la "dannazione eterna" prevista per il peccato del suicidio nella religione cristiana, commettevano un omicidio, spesso un infanticidio, per poi consegnarsi alle autorità per essere giustiziate. In questo modo, diversamente dal suicidio, avevano una piccola possibilità di ottenere la confessione, l'eucaristia e l'esecuzione pubblica religiosa. E così ottenere anche la "salvezza" della loro anima. Il film, ambientato nell'Austria del XVIII secolo, segue le vicende di Agnes (Anja Plaschg) e Wolf (David Scheid), due novelli sposi e umili contadini, che hanno difficoltà ad avere un figlio. La motivazione di ciò, seppur non viene mai esplicitata, sembra essere l'omosessualità di Wolf che rifiuta continuamente il coito con Agnes. Le tensioni all'interno dell'abitazione cresceranno con le visite quotidiane della madre di Wolf (Maria Hofstätter), che imporrà ad Agnes la sua gestione domestica e le sue usanze. Agnes dall'animo fragile e malinconico ma fortemente religioso, cadrà lentamente in una profonda depressione che la porteranno ad isolarsi nella sua fede e nei suoi sensi di colpa. Tenterà di fuggire dal villaggio per tornare nella casa di sua madre e suo fratello, ma sarà costretta a tornare da Wolf per adempiere ai suoi doveri di moglie. Al suo rientro il suo stato mentale peggiorerà, portandola alla follia.
Il film ha il grande pregio di aver realizzato una ricostruzione storica impeccabile, che si percepisce immediatamente dalle incontaminate ambientazioni dei boschi e dalle casette in pietra, dai dettagli dei costumi e degli utensili d'epoca, tutto è catturato dal talentoso direttore della fotografia Martin Gschlacht ("Lourdes", "Goodnight Mommy", "Revanche"). Meno si potrebbe dire sul ritmo, lento per buona parte dello sviluppo degli eventi, che però si riscatta con un climax esplosivo nell'ultima mezz'ora, il cui merito è tutto nella toccante quanto disturbante performance di Anja Plasch, conosciuta al pubblico per il suo progetto musicale SOAP&SKIN, qui al suo primo ruolo da attrice protagonista e anche compositrice della colonna sonora. Ci restituisce un ritratto umano così disperato, estremo ed autentico, da non sorprendere che, come più volte ha dichiarato nelle interviste, ha avuto molto a che fare con la sua personale esperienza con la depressione. Meno convincente risulta invece la rappresentazione del contesto psicologico attorno al personaggio di Agnes, che rimane più sfumato perché trascurato, inficiando sulla completa riuscita del conflitto. Sembra che Veronika Franz e Severin Fiala si siano lasciati sfuggire una grande occasione, a causa di una scrittura un pò fiacca. "Il bagno del diavolo" è un film che malgrado nel suo complesso potrebbe lasciare una sensazione di incompletezza, risponde al nobile compito di far riemergere nel cinema una pagina oscura della storia umana mai raccontata. E se qualcuno avesse ancora dubbi che la religione genera mostri, allora questo film li scioglierà.

mercoledì 19 giugno 2024

In memoria di Arwen Lynch

Purtroppo ho appreso solo oggi la tragica notizia della morte di Arwen Lynch (Laura), nota blogger cinefila de La fabbrica dei sogni. Si è spenta la sera del 25 maggio a causa di un tumore contro cui ha lottato per diversi anni, con una forza d'animo incredibile, perché fino all'ultimo periodo ha mantenuto la sua positività. Soffro molto per questo, perché negli ultimi due mesi sono stato davvero poco presente sui social e in genere con tutte le mie amicizie virtuali, a causa di un progetto per cui sto lavorando faticosamente, perciò non ho potuto avere il piacere di un ultimo scambio con lei in chat o in chiamata. Laura mi diceva sempre che avrebbe tanto voluto che fossimo stati vicini di casa, per concretizzare un'amicizia virtuale che è durata da più di un decennio. Lo avrei voluto tanto anch'io. Parlare di persona, guardandoci dritti negli occhi e abbracciarci, condividere la vita e... la nostra più grande passione: il cinema. Finalmente, avremmo potuto guardare tanti film insieme. E mi avrebbe fatto conoscere molte delle cose che ancora non ho visto, perché lei ha dedicato molto tempo al cinema, arrivando a costruirsi una cultura cinematografica importante, tra le più estese in cui mi sia mai imbattuto. Ma tutto ciò non è accaduto e non accadrà, sfortunatamente il crudele destino ci ha divisi materialmente, confinati in due regioni non vicine e sopratutto costretti a una situazione personale difficilissima a causa della malattia, non solo la sua, ma anche la mia. Non so più quanto resisterò ancora, non so neanche perché scrivo oggi queste parole, probabilmente solo per esprimere e testimoniare tutto il mio dolore, la frustrazione, la rabbia e l'ingiustizia che provo nei confronti della mia vita. Cosa farne allora di questa "vita"? Laura avrebbe detto sicuramente di lottare, insistentemente, contro il male. È il nostro dovere come esseri umani. Ci provo, ma non ce la faccio. Sono stanco. Non piango lacrime, perché non ne ho più, ma piange il mio spirito. Pensando a Laura e al cinema, la prima cosa che mi viene in mente è il suo amore per David Lynch. Perciò chiudo qui, lasciando questa scena, in dedica, alla sua memoria.


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