Quello di Vitali Kanevsky è un viaggio orrifico nell'Unione Sovietica guidata da Stalin nel '47. Lo viviamo attraverso gli occhi di un bambino, Valerka, che vive da solo con sua madre, perché suo padre è finito in prigione. La madre, Nina, per tirare avanti sparirà dalla vista del figlio per ore, verso destinazioni ignote e senza dare spiegazioni, Valerka quando marinerà la scuola la intravedrà a fare la fila tra la folla affamata per prendere il pane o in sospetti incontri fugaci e appassionati con diversi uomini. Valerka così deciderà di guadagnare qualche soldo vendendo del tè caldo per le melmose stradine di Sutchan, qui conoscerà Galia, una ragazzina dodicenne poco più grande di lui che lo aiuterà con i clienti e con la quale instaurerà un prezioso rapporto di amicizia. Insieme, giorno dopo giorno, si ritroveranno a condividere i dolori e le gioie di quella dura vita. Ma Valerka per il suo temperamento irrequieto e ribelle finirà per compiere una serie di monellerie, una fra tutti quella di gettare del lievito nelle latrine della scuola causando un'inarrestabile fuoruscita di "merda" dalle fogne, che lo porterà all'espulsione immediata.
Valerka ricorda tanto l'Antoine Doinel de "I 400 Colpi" di François Truffaut, non solo per il suo carattere ribelle e l'incapacità di seguire le regole degli adulti, ma anche per come lo racconta il suo autore, attraverso uno sguardo così personale e diretto che riesce a restituire nell'obiettivo quell'innocente incoscienza tipica di quell'età, quando le esperienze traumatiche e dolorose che si assimilano non possono essere ancora comprese completamente a livello cosciente. Quello stato di fremente ribellione, gravato dell'infelicità che comporta un'infanzia rubata come quella, è come un istinto incontenibile. E il regista Vitali Kanevsky sembra conoscerlo proprio bene, non a caso il film, come quello di Truffaut, è strettamente autobiografico. Ma qui si aggiunge l'aggravante del contesto storico e politico: l'autoritarismo della polizia sovietica, le condizioni disumane delle abitazioni, le strade di fango, le code per la farina, i ritratti e le insegne di Stalin che invitano all'ordine (che nel contesto appaiono tragicamente ironiche), i campi di prigionia, le esecuzioni, i reduci della guerra mutilati e zoppi, e infine gli intellettuali impazziti, a questo proposito è di indelebile memoria l'insegnante di Mosca che vaga come uno spettro nella cittadina e che in una delle scene più potenti del film, lo vedremo mangiare della farina impastata con il fango, fissando con i suoi occhi disperati e vuoti l'obbiettivo della cinepresa, per poi dissolversi nella luce. A questo proposito è interessante l'uso che il film fa proprio della luce: è pressoché debole, il bianco e nero del fotografo Vladimir Brylyakov mantiene tonalità scure e grigiastre, confondendo spesso gli elementi del campo con le ombre. La terra, i paesaggi, la melma e i passi dei personaggi sul suolo si fondono in un tutt'uno indistinguibile, il tutto è amplificato dal movimento frenetico della macchina da presa, non c'è quasi mai spazio per la contemplazione, salvo in rari momenti come il citato sguardo dell'insegnante, dove la luce "interviene" diffondendosi, assestando e congelando il tempo. È quello che succede anche quando Valerka assiste all'annegamento di un gattino, la luce sul suo volto improvvisamente si intensifica, è una rottura formale che sembra avvertirci che qualcosa di irrimediabile sta accadendo nel suo subconscio, di fatti si manifesterà ancora nel finale quando la luce riempirà con un flash le figure di due bambini che assisteranno attoniti alla disperazione di una donna in preda alla follia.
In un contesto del genere, il destino di Valerka e Galia non potrà che essere tragicamente segnato, i confini che li separeranno dalla libertà saranno insormontabili e anche quando la speranza di un cambiamento sfiorerà i loro cuori, verrà spazzata via in meno di una frazione di secondo.
L'epilogo violento del film, che è uno dei più destabilizzanti che abbia mai visto un film, non piacerà di certo a chi si aspetterà un "classico" film sovietico, per l'impatto psicologico e la feroce denuncia mi ha ricordato il capolavoro sperimentale "W.R. - Misterije organizma" di Dušan Makavejev, dove anche lì le immagini dei corpi dei "pazzi" diventano simbolo e testimonianza della repressione esercitata dal regime sovietico. La critica cinematografica Adelina Preziosi lo ha perfettamente descritto come: «un'esplosione, inaspettata e scioccante, di dolore adulto che solo un'urgenza creatrice ancora più forte può trattenere sullo schermo e controllare. La memoria da sola non ne sarebbe capace».
Il film può essere in streaming su Youtube,
potete recuperare i sottotitoli in inglese su opensubtitles.
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