venerdì 4 febbraio 2022

La danza della realtà (2013)

A distanza di 23 anni, dopo il mal riuscito "Il ladro dell'arcobaleno", Alejandro Jodorowsky ritorna dietro la macchina da presa per imprimere in pellicola la sua omonima autobiografia pubblicata nel 2001. E si tratta di un grande ritorno, perché "La danza della realtà" ci restituisce una realtà storica filtrata attraverso immagini di grande potenza visionaria, cariche di tutta quella "psicomagia" che Jodorowsky ha teorizzato e sviluppato nel corso della sua carriera artistica.
La storia è ambientata nella Tocopilla degli anni '30, la piccola città cilena dove il regista nacque, qui assisteremo alle vicissitudini della sua infanzia e le difficoltà con i suoi genitori, in particolare con suo padre, un uomo machista e stalinista che opprime la sua personalità, dalla sua necessità di conciliarsi con un mondo spirituale a quella di relazionarsi empaticamente con il prossimo. Sua madre canta invece di parlare per tutto il film e crede che suo figlio sia l'incarnazione del nonno a causa dei suoi capelli lunghi biondi (che nel film sono raffigurati da una vistosa parrucca, scelta stilistica che evidenziandone l'artificiosità ne esalta il realismo magico). Nella seconda parte, il vero protagonista del film è la figura del padre, che affronterà una grande crisi dei suoi valori quando progetterà di assassinare il Presidente di destra Carlos Ibáñez del Campo, senza però mai riuscirci, impedito dalla sua inconscia devozione. Quando tenterà di impugnare la pistola per ucciderlo le sue mani si paralizzeranno rimanendo chiuse come espressione somatica della sua paralisi emotiva al cospetto dell'autorità. Come dirà sua moglie nella straordinaria e catartica conclusione del film: «Hai trovato in Ibáñez tutto ciò che ammiravi in Stalin. Sei uguale a loro! Hai vissuto sotto le spoglie di un tiranno». Lo spettatore si troverà faccia a faccia con il vero uomo sotto le maschere che si sono stratificate su di esso e ne proverà una grave compassione. Come già accadeva in "Santa Sangre", Jodorowsky dimostra una grande abilità nel rappresentare lo psicodramma attraverso una ricca e sfaccettata simbologia, il suo è un cinema più viscerale che intellettuale, perché è un cinema che vuole attuare un concreto cambiamento, un'azione per guardarsi nel profondo e guarire. Le entrate in scena dello stesso regista non sono mai autoreferenziali, ma momenti di grande poesia: abbraccia se stesso, guida se stesso, rivela a se stesso la forza sconfinata dell'animo umano, perché se c'è qualcuno che può salvarci, quello siamo noi. È un processo estremamente doloroso e complesso, ma inevitabile. E Jodorowsky l'ha imparato a farlo e a raccontarcelo con grazia.

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